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VESPER No.11: Miserabilia

18,00 

1 disponibili

L’undicesimo numero di «Vesper» si intitola Miserabilia e vuole mettere a fuoco gli spazi e gli spettri della miseria nell’immaginario e nella realtà muovendo da due assunti: la rimozione dello spazio di esistenza della miseria nella realtà concreta e immateriale occidentale a favore di «misurabili condizioni di povertà»; la presenza nelle città di manufatti a testimonianza di un passato in cui la miseria era «materia» di governo e di progetto.
La miseria nelle società occidentali è oggi un impensato e un irrappresentabile; risulta indicibile e invisibile, estromessa in un altrove storico, geografico, culturale. Eppure, in passato la miseria ha avuto ad esempio in Italia forme maestose, dalle scuole grandi veneziane agli alberghi dei poveri. Al monumento sono subentrate le architetture anonime dei centri di servizio o manufatti temporanei che rispondono a situazioni emergenziali. Se la monumentalità della miseria esprimeva un’estetica, l’architettura della povertà la rigetta in nome della funzionalità: oggi lo spazio della miseria risulta svuotato di fenomenologie, evidenze, qualità, quantità, dimensioni, estensioni, discorsi.
La miseria è dunque una questione di spazio e di spazialità, nella realtà e nell’immaginario. Laddove la miseria non è rappresentata o rappresentabile, non svanisce affatto: nell’anonimato finisce piuttosto per essere interiorizzata, esprimendosi tutt’al più nella colpevolizzazione e nell’indebitamento, perfino nella criminalizzazione della povertà, a cui fa da contraltare l’immiserimento morale dei quartieri benestanti, sempre più isolati e chiusi al resto della città. Ne scaturisce una urbanità in stato permanente di crisi, dove lo spettro di una miseria ovunque incombente finisce per legittimare un’arte di governo dell’emergenza e della precarietà. Solo lo spazio «smisurato», scartato, dimenticato, persiste come ambito in cui la miseria può insediarsi, accamparsi, riconoscersi.

The eleventh issue of «Vesper», entitled Miserabilia, aims to focus on spaces and spectres of misery in imagination and reality. Two assumptions underlie it: the removal of the space of existence of misery in the concrete and immaterial context of the West in favour of «measurable conditions of poverty», and the presence of buildings in cities as evidence of a past in which poverty was a «matter» of governance and planning.
Misery in Western societies is today unthinkable and unrepresentable, unspeakable and invisible, exiled to a historical, geographical, cultural elsewhere. Yet, in the past, misery took majestic forms in Italy, for instance, from the Great Schools of Venice to the almshouses for the poor. Monuments gave way to the anonymous architecture of service centres or temporary structures responding to emergency situations. If the monumentality of misery expressed an aesthetics, the architecture of poverty rejects it in the name of functionality: today the space of misery is emptied of phenomenology, evidence, quality, quantity, scale, extension, discourse.
Misery is therefore a question of space and spatiality, in the reality and in the collective consciousness. Where misery is not represented or representable, it does not disappear at all: in anonymity it rather ends up being internalized, expressed at the most in blaming and indebtedness, even in the criminalization of poverty, which is counterbalanced by the moral immiseration of affluent neighbourhoods, increasingly isolated and closed to the rest of the city. The result is an urban space in a permanent state of crisis, where the spectre of impending poverty everywhere ends up legitimizing an art of governing emergency and precariousness. Only the «boundless», discarded, forgotten space persists as an environment in which misery can settle, set up camp, recognize itself.

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L’undicesimo numero di «Vesper» si intitola Miserabilia e vuole mettere a fuoco gli spazi e gli spettri della miseria nell’immaginario e nella realtà muovendo da due assunti: la rimozione dello spazio di esistenza della miseria nella realtà concreta e immateriale occidentale a favore di «misurabili condizioni di povertà»; la presenza nelle città di manufatti a testimonianza di un passato in cui la miseria era «materia» di governo e di progetto.
La miseria nelle società occidentali è oggi un impensato e un irrappresentabile; risulta indicibile e invisibile, estromessa in un altrove storico, geografico, culturale. Eppure, in passato la miseria ha avuto ad esempio in Italia forme maestose, dalle scuole grandi veneziane agli alberghi dei poveri. Al monumento sono subentrate le architetture anonime dei centri di servizio o manufatti temporanei che rispondono a situazioni emergenziali. Se la monumentalità della miseria esprimeva un’estetica, l’architettura della povertà la rigetta in nome della funzionalità: oggi lo spazio della miseria risulta svuotato di fenomenologie, evidenze, qualità, quantità, dimensioni, estensioni, discorsi.
La miseria è dunque una questione di spazio e di spazialità, nella realtà e nell’immaginario. Laddove la miseria non è rappresentata o rappresentabile, non svanisce affatto: nell’anonimato finisce piuttosto per essere interiorizzata, esprimendosi tutt’al più nella colpevolizzazione e nell’indebitamento, perfino nella criminalizzazione della povertà, a cui fa da contraltare l’immiserimento morale dei quartieri benestanti, sempre più isolati e chiusi al resto della città. Ne scaturisce una urbanità in stato permanente di crisi, dove lo spettro di una miseria ovunque incombente finisce per legittimare un’arte di governo dell’emergenza e della precarietà. Solo lo spazio «smisurato», scartato, dimenticato, persiste come ambito in cui la miseria può insediarsi, accamparsi, riconoscersi.

The eleventh issue of «Vesper», entitled Miserabilia, aims to focus on spaces and spectres of misery in imagination and reality. Two assumptions underlie it: the removal of the space of existence of misery in the concrete and immaterial context of the West in favour of «measurable conditions of poverty», and the presence of buildings in cities as evidence of a past in which poverty was a «matter» of governance and planning.
Misery in Western societies is today unthinkable and unrepresentable, unspeakable and invisible, exiled to a historical, geographical, cultural elsewhere. Yet, in the past, misery took majestic forms in Italy, for instance, from the Great Schools of Venice to the almshouses for the poor. Monuments gave way to the anonymous architecture of service centres or temporary structures responding to emergency situations. If the monumentality of misery expressed an aesthetics, the architecture of poverty rejects it in the name of functionality: today the space of misery is emptied of phenomenology, evidence, quality, quantity, scale, extension, discourse.
Misery is therefore a question of space and spatiality, in the reality and in the collective consciousness. Where misery is not represented or representable, it does not disappear at all: in anonymity it rather ends up being internalized, expressed at the most in blaming and indebtedness, even in the criminalization of poverty, which is counterbalanced by the moral immiseration of affluent neighbourhoods, increasingly isolated and closed to the rest of the city. The result is an urban space in a permanent state of crisis, where the spectre of impending poverty everywhere ends up legitimizing an art of governing emergency and precariousness. Only the «boundless», discarded, forgotten space persists as an environment in which misery can settle, set up camp, recognize itself.

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